Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze
Il Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi, estremo capolavoro della scultura manierista, ritorna dov’è nato, quasi quattro secoli e mezzo fa.
Palazzo corsini (via del parione 11, firenze) – stand 13
Dal 24 settembre al 2 ottobre 2022
È l’ultima occasione, prima che riparta irrimediabilmente per l’estero, di far restare a Firenze, acquisendolo, il capolavoro dell’inquieto allievo di Baccio Bandinelli, quel Vincenzo de’ Rossi (Fiesole, 1525 – Firenze, 1587), che fu l’ultimo degli scultori manieristi e al tempo stesso un precursore dell’estremismo espressivo barocco.
A Firenze i suoi sei gruppi monumentali delle Fatiche d’Ercole ornano, in compagnia di Michelangelo, il gran Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio. Il marmo di Teseo ed Elena fu posto assieme ai non finiti Prigioni del Buonarroti nella Grotta del Buontalenti a Boboli, e infine il suo Adone morente – per secoli a torto, ma non senza ragione, attribuito proprio a Michelangelo – è tra i capolavori di scultura più drammatici conservati al Museo del Bargello.
Il Laocoonte, a grandezza naturale, pesante due tonnellate, iniziato da Vincenzo de’ Rossi nel 1584 per la nobile famiglia fiorentina Della Sommaja, fu celebrato a suo tempo da versi italiani, latini e greci, proprio come il Laocoonte antico quando fu ritrovato nel 1506 e riconosciuto come l’opera di Agesandro, Atenodoro e Polidoro che Plinio il Vecchio aveva visto nella residenza dell’imperatore Tito, e di cui scrisse che era per bellezza da anteporre a tutte le altre opere sia di scultura che di pittura del suo tempo.
L’eccezionale scoperta del Laocoonte ebbe un’enorme influenza sullo sviluppo dello stile di Michelangelo, nell’acme dell’arte del Rinascimento che presto si mutò in Manierismo. Nel 1520, Baccio Bandinelli intraprese l’esecuzione di una copia, dapprima destinata in dono al re di Francia, ma poi tenuta per sé dal committente, il cardinal Giulio de’ Medici, poi papa Clemente VII. È il marmo che oggi è posto al termine del corridoio di ponente degli Uffizi: lungo tutta la base è incisa a caratteri cubitali la firma di Baccio, quasi che l’opera l’avesse inventata lui e non copiata. «Io di lunga mano l’ò superato», si gloriava infatti il vanitoso scultore scrivendo, molti anni più tardi, a Cosimo I, convinto d’aver fatto meglio dell’originale greco lodato da Plinio.
Vincenzo de’ Rossi invece, non vuole copiare l’antico marmo ellenistico, ma ne vuole accentuare fino all’estremo la carica drammatica cambiando la posa di Laocoonte e dei suoi figli e aizzando a maggior cattiveria i rettili orrendi che li stritolano. Laocoonte torce per il dolore il busto verso destra fino all’impossibile, i figli mutano il contrapposto delle braccia e delle gambe secondo un’armonica asimmetria che conchiude l’intero gruppo entro un ideale schema di curve che intersecandosi formano una mandorla. Il serpente che nell’originale greco morde il fianco di Laocoonte, a destar maggior senso d’orrore morde il disgraziato sacerdote troiano sulla testa, un culmine di drammaticità che coincide col sommo del gruppo, un’idea che de’ Rossi forse mutua dalla vela Sistina di Michelangelo, quella del “Serpente di bronzo”, dove compare all’estrema destra una testa barbuta azzannata in maniera egualmente drammatica.
Se nel Laocoonte ellenistico l’istante è fermo al culmine del dramma in un momento in cui l’uomo ancora resiste con tutte le sue forze all’attacco bestiale, in quello di Vincenzo de’ Rossi è come se l’azione fosse rappresentata qualche fotogramma più in là, più vicina al tragico esito finale della lotta. Se quello greco è un momento di perfezione dell’arte classica, e quello di Bandinelli rappresenta l’illusione di aver superato il modello antico, il Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi esprime chiaramente la volontà di andare oltre il modello, alla ricerca di una maniera d’esprimersi più espressiva, anche a spese della bellezza.
Scomparso per quattro secoli, questo capolavoro manierista riaffiora misconosciuto in un’asta giudiziaria del 1987, tra gli arredi disparati che ornavano un bizzarro castello moderno in stile, mai finito, frutto della bizzarra passione di una coppia di fratelli, Raymond e Alphonse Réthoré, di creare una piccola Versailles a La Mercerie, a 17 Km da Angoulême, nella Charente. Acquistato da Fabrizio Apolloni, il gruppo venne subito identificato come perduta opera di Vincenzo de’ Rossi, nominata da Raffaello Borghini nel trattato d’arte Il Riposo (1586) dallo studioso Detlef Heikamp, benemerito specialista del tardo Cinquecento fiorentino, che pubblica la scultura nel 1990, in un corposo articolo nella rivista dell’Istituto tedesco di storia dell’arte di Firenze. Nel 2006, in coincidenza con il centenario del ritrovamento del Laocoonte antico, Marco Fabio Apolloni importa in Italia il gruppo di Vincenzo de’ Rossi esponendolo nella galleria W. Apolloni di via del Babuino 133-134. Dal 2014 la scultura viene sposta nei locali di via Monterone 13-13a, dove inizia la sua attività la Galleria del Laocoonte, fondata da Monica Cardarelli e Marco Fabio Apolloni, che dalla scultura ha preso il nome e la vocazione di occuparsi degli aspetti figurativi dell’arte del primo ‘900 italiano. Nel 2017 il saggio di Detlef Heikamp, riveduto e ampliato, intitolato Il Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi, viene pubblicato in volume per le Edizioni Polistampa di Firenze.
Nel 2018 la scultura è esposta al Museo d’Arte Occidentale di Oueno a Tokyo, al centro della mostra Michelangelo and the Ideal Body.
La Laocoon Gallery di Londra partecipa alla XXXII edizione di BIAF – Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, la più antica mostra mercato al mondo, punto di riferimento per la grande arte italiana, in programma dal 24 settembre al 2 ottobre a Palazzo Corsini.
Laocoon Gallery, che unisce a Londra il meglio di due gallerie romane: la W. Apolloni, specializzata in arte antica, e la Galleria del Laocoonte specializzata in arte del primo Novecento italiano, sarà presente allo stand n.13 con un’accurata selezione di capolavori dell’arte italiana.
A dialogare con il Laocoonte è una splendida opera ispirata alla scultura e all’antichità classica di Achille Funi, intitolata Venere latina, ovvero il Nudo e le Sculture. Protagonista del dipinto è l’immagine di Venere, la dea romana dell’Amore. Come la famosa statua di Pigmalione essa non è più di marmo, ma non è ancora fatta di carne, come se l’artista volesse, letteralmente, far rivivere, resuscitare, la dea della bellezza nel tempo presente. Si tratta di un’opera che rinnova l’iconografia antica, mettendo la dea al centro di un paesaggio mediterraneo ideale occupato da templi e frammenti di sculture classiche. Il “ritorno all’ordine” per Funi è tornare nel sognato tempo antico come nel grembo di una dea amante e madre.
Esposto alla XVII Biennale di Venezia del 1930, rappresenta il culmine dello stile di Funi e coincide con l’inizio della sua grande epica stagione di muralista, capace di rievocare, a fresco, l’antichità, il medioevo, il rinascimento in un’unica mitologia di memorie figurative italiane.
In tono con la precedente, è un’opera del grande scultore Libero Andreotti. Si tratta della scultura in bronzo della Venere Fortuna datata 1928-1931. La classica iconografia della nascita di Venere, raffigurata in piedi sulla conchiglia che solca le dolci onde marine, si confonde con la personificazione della Fortuna, in bilico sulle acque, che tiene spiegata una vela che il vento favorevole gonfierà conducendo la dea verso l’orizzonte di un destino benigno.
A Firenze saranno inoltre esposti diversi piatti in ceramica di Leoncillo Leonardi, artista molto rivalutato in questi ultimi anni dal collezionismo e dal mercato internazionale.
Ufficio Stampa Laocoon Gallery
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